I pericoli di una nuova autarchia europea


Nella settimana passata l’Unione Europea ha preannunciato un nuovo programma, denominato Savings and Investments Union, con lo scopo di dare una connotazione operativa a quello della Capital Markets Union, lanciato ben 11 anni fa e finora restato lettera morta. La SIU riprende in buona sostanza le proposte contenute nei rapporti Draghi e Letta. Partendo dall’analisi della differenza tra risparmio e investimenti, mira scongelare i circa 11 triliardi di euro depositati nelle banche, per trasformarli, almeno in gran parte, in partecipazione al capitale di rischio delle imprese europee, allo scopo di stimolare la crescita economica del Vecchio Continente.

Fin qui, tutto bene. Ma un conto è creare un sistema di regole semplificate e “amiche del mercato” e provvedere a contenere la pressione fiscale complessiva, altro è creare un canale privilegiato solo per alcuni investimenti. Se è ragionevole cercare di attirare capitali privati per realizzare obiettivi pubblici, creare un meccanismo in cui si offra un trattamento privilegiato a questi capitali, significherebbe uscire dalla logica di mercato per effettuare una politica di spesa pubblica “con altri mezzi”. Se invece, come è il proposito della Commissione europea, si persegue il concorso degli investimenti privati, allora si devono rispettare le regole del mercato.

In sostanza, investire nelle imprese europee può certamente essere il frutto di un approccio sentimentale – l’oro alla Patria – soprattutto in una fase di conflitti internazionali, ma non può non rispondere a principi di razionalità e convenienza. Pena il rischio di costruire, con la scusa di un presunto potenziamento del mercato, una nuova forma di economia di comando.

Anche perché non adottare un approccio di mercato provoca conseguenze negative sugli effetti dell’investimento, sul suo costo e sulla crescita economica. In primo luogo, l’entità degli investimenti privati deve essere coerente con la capacità produttiva presente localmente. Se questa non è in grado di assorbire tutta la domanda, la sola conseguenza sarà quella della crescita dei prezzi (il 110 per cento dovrebbe ricordarci qualcosa) e quindi dell’inflazione. Certo, si potrà considerare il lato positivo della questione, cioè il fatto che si agevola l’accentramento della produzione verso i luoghi più recettivi e con maggiore disponibilità finanziaria, come è oggi ad esempio la Germania, che ha già annunciato un programma di investimenti di entità analoga a quello dell’intera Europa. Il che può andare bene, ma potrebbe rappresentare qualche criticità per gli altri paesi dell’Unione.

Ma gli effetti più gravi discenderebbero dal fatto che per tal via si verrebbe a creare una sorta di economia protetta dalla concorrenza internazionale, che funzionerebbe come un monopolio, dove i prezzi sono destinati a crescere e la qualità a diminuire: gli acquirenti, e tra essi anche gli Stati, pagherebbero di più per beni scadenti, molte imprese decotte sopravviverebbero e non ne nascerebbero di nuove e più efficienti. In sostanza, alla fine di questo processo, ci si troverebbe con un tessuto industriale obsoleto e con tanti disoccupati in più. Un simile approccio dunque porterebbe all’autodistruzione economica, tanto più se questi effetti si sommassero a quelli della nuova pericolosa politica dei dazi.

Ovvio corollario di un simile approccio potrebbe essere costringere comunque i risparmiatori ad indirizzarsi esclusivamente verso investimenti nazionali: spingere verso una forma di autarchia finanziaria non sortirebbe altro effetto se non, in mancanza di competizione e di concorrenza, quello di offrire prodotti più scadenti e quindi abbassare i rendimenti e togliere risorse per lo sviluppo interno. Se poi qualcuno dicesse che, grazie ad una sorta di garanzia pubblica, si tratterebbe di mettere al sicuro il proprio denaro, allora sì che il gioco si trasformerebbe in una nuova dirompente esplosione del debito pubblico.

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