25 miliardi dai fondi europei


Tre come le riunioni in fila nella Sala verde di Palazzo Chigi – industria, pmi, agricoltori – per cercare di aprire un ombrello contro i dazi americani. Venticinque, come i miliardi che il governo spera di ricavare da una rimodulazione del Pnrr e dei fondi di coesione europei per destinarli a sostegno delle filiere nel mirino delle tariffe. Nove, i giorni che la separano dal primo bilaterale ufficiale con Donald Trump alla Casa Bianca, il 17 aprile, momento clou per sondare le intenzioni dell’insondabile amministrazione Usa. Balla sui numeri la giornata di Giorgia Meloni riunita in conclave con la task force sui dazi insieme ai vice Matteo Salvini e Antonio Tajani, i ministri Urso e Giorgetti, Foti e Lollobrigida. E qualche numero rimane impresso agli imprenditori e i sindacalisti usciti dalla maratona negoziale con la premier, da Confindustria con il presidente Orsini a Confartigianato, Ice, Coldiretti e le associazioni agricole. Uno su tutti: 25 miliardi.

LA CACCIA AI FONDI

È la dote che il governo conta di mettere da parte scavando fra le pieghe del Pnrr e dei fondi di coesione. Meloni fa i conti. «Circa 11 miliardi di euro possono essere riprogrammati» dai fondi di coesione «a favore delle imprese, dei lavoratori e dei settori che dovessero essere più colpiti». Altri 14 miliardi passano dalla revisione del Recovery italiano. E potrebbe non finire qui, annuncia la leader del governo ai rappresentanti delle categorie in cerca di rassicurazioni – perché altri sette miliardi di euro potrebbero arrivare dal Piano sociale per il clima della Ue. «Siamo impegnati, quindi, a individuare tutte le risorse, partendo da quelle disponibili che non hanno un impatto sulla finanza pubblica», spiega la premier.

Giudica «assolutamente sbagliata» la mannaia di Trump contro l’Ue ma a tutti chiede di «scongiurare reazioni emotive» ché «il panico e l’allarmismo rischiano di fare molti più danni». Segue l’invito a serrare i ranghi, «un nuovo patto per fare fronte comune rispetto alla nuova delicata congiuntura economica che stiamo affrontando». Non è semplice guardare al bicchiere mezzo pieno. Ci prova comunque la leader di Fratelli d’Italia a tu per tu con i ceti produttivi, lo sguardo ai fondamentali dell’economia italiana che lasciano qualche speranza. I tavoli sono stati convocati alla vigilia del Consiglio dei ministri in calendario per varare il nuovo Documento di economia e finanza, ora diventato l’aggiornamento sull’attuazione del Piano strutturale di bilancio concordato dalla Ue. Un documento tecnico che conterrà le previsioni per il 2025 e per il prossimo biennio. Il pil quest’anno si fermerà allo 0,6% (era indicato all’1,2%). Per il 2026-207 si ipotizza uno 0,7% e 0,8%. Si tornerà quindi all’1% nel 2028. Tutto quello che si vorrà fare in più dovrà avere coperture. Ecco spiegato lo sforzo a trovare risorse per sostenere l’economia colpita da dazi attingendo dai fondi europei. Questi sono fuori dal computo della spesa primaria netta, il nuovo indicatore per misurare il rispetto delle regole Ue , che potrà crescere solo del’1,5%.

LA RICOGNIZIONE

Perciò partirà la ricognizione per spostare i soldi indicati da Meloni. Operazione che vede in regia ancora una volta Raffaele Fitto, vicepresidente della Commissione Ue, tutt’ora discreto e fidatissimo consigliere della leader italiana. Tutte le strade, sorpresa, portano a Bruxelles. Qui si decide la trattativa sui dazi ed è un bene che Ursula von der Leyen e i leader Ue non stiano tifando per l’escalation, spiega Meloni, perché in quel caso «l’Italia non l’avrebbe supportata». Riecco l’occasione di rifilare all’Ue qualche stoccata.

Nella speranza che Trump ci ripensi sui dazi, urge togliere i «dazi auto-imposti» europei, incalza Meloni. Come «le regole ideologiche e non condivisibili del Green deal» per l’automotive. E in generale i mille cavilli burocratici dell’Ue che spingono la presidente italiana a chiedere una «moratoria regolatoria»: zero regolamenti sul mercato interno europeo finché «non sarà chiaro il quadro di riferimento». Un’altra emergenza chiamata in causa: l’impatto della «sovrapproduzione della Cina e di altri Paesi soprattutto asiatici» sui mercati europei. Insomma c’è un’occasione in questa crisi – «viene dal greco “krisis” che significa scelta, decisione» ricorda la premier – e tocca all’Ue coglierla. Ma intanto c’è una crisi tutta italiana. Le imprese chiedono garanzie.

Meloni cala la carta dei fondi europei. Una parte dei progetti Pnrr andranno a finire nella coesione; le risorse di Transizione 5.0 alla transizione tecnologica. Un complicato schema da contrattare con Bruxelles che permetterà all’Italia di restare in linea sui conti. E nel frattempo, anche per merito delle maggiori entrate sarà mantenuto l’impegno a riportare il deficit al 3% nel 2026. Sarà rivisto in meglio il dato sul 2025, da 3,3% a 3,2% o 3,1%. Il debito è visto in salita , ma meno che in autunno. Ballano ancora i numeri, le virgole. Difficile che basti la fredda matematica a convincere di un passo indietro il “dealer” Trump.

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